TATTOO
Non può piovere
per sempre
La Caritas Bergamasca ci ha invitato a collaborare alla realizzazione di un’esplorazione guidata da Giuseppe Goisis, arricchita dai disegni di Tantemani.
Durante questo percorso, abbiamo avuto l’opportunità di ascoltare le storie di sette persone coinvolte nel progetto, che vivono attualmente in situazioni di fragilità sociale ed economica. Queste persone si sono raccontate a Giuseppe attraverso i loro tatuaggi, e noi, partendo dai loro racconti, abbiamo riprodotto i tatuaggi narrati nelle loro storie.
L’esplorazione sociale di Giuseppe Goisis si ispira alla figura di Ötzi, l’uomo venuto dal ghiaccio, come riflessione sulla potenza narrativa dei tatuaggi. Scoperto nel 1991, Ötzi visse 5.300 anni fa durante l’Età del Rame e portava sul suo corpo 61 tatuaggi. Questi segni, disposti lungo meridiani energetici, avevano probabilmente una funzione terapeutica. Goisis utilizza questa antica testimonianza per esplorare come i tatuaggi, anche oggi, possano raccontare storie personali e riflessioni sull’identità, specialmente per chi vive in condizioni di fragilità.
In questo modo, il progetto si fa portatore di un messaggio profondo: ogni tatuaggio è una storia, un segno indelebile della propria esistenza.
Ötzi, l’uomo venuto dal ghiaccio
di Giuseppe Goisis
Il 19 settembre 1991, in Val Senales, Alpi Venoste, due turisti si imbattono nel tronco e nella testa di un corpo umano mummificato e congelato. Spuntano platealmente dalla superficie del ghiacciaio (il Similaun). La salma viene recuperata e trasferita all’Istituto di medicina legale di Innsbruck insieme ad alcuni oggetti adiacenti. La datazione al radiocarbonio stabilirà che l’uomo ha 5.300 anni. Età del Rame. Tardo neolitico!
La mummia diventa famosa in tutto il mondo con il nome di Ötzi, termine tedesco per indicare le Alpi Venoste. Gli studi successivi ne definiscono l’identikit. Si tratta di un maschio di circa 45 anni, cacciatore ben equipaggiato, con sopravveste, gambali in pelliccia di capra, perizoma in pelle di pecora, berretto in pelliccia d’orso e scarpe di pelle imbottite con uno strato di fieno, un lungo arco in legno di tasso e una faretra con 14 frecce in punta di selce. Alla cintura porta un marsupio con l’occorrente per accendere il fuoco, un ritoccatore per affilare la selce e un kit di pronto soccorso con un fungo dalle proprietà terapeutiche, il poliporo di betulla. Completano l’attrezzatura una gerla di rami da nocciolo, una stuoia in graticcio di erba e dei recipienti in corteccia di betulla con resti di brace. Dai chicchi di cereali ritrovati sui vestiti e nello stomaco si desume provenisse da un insediamento agricolo.
Ötzi era agile, anche se non più in perfetta forma: soffriva di dolori articolari e dei postumi di una infezione trasmessa dalle zecche, nonché era affetto da disturbi dovuti a parassiti intestinali e all’Helicobacter pylori. Il DNA ha rivelato una predisposizione per le malattie cardiovascolari con segni conclamati di arteriosclerosi.
Analisi cliniche ulteriori conducono a una seconda sensazionale scoperta: Ötzi non è stato travolto da una valanga né è morto assiderato, bensì colpito alle spalle da una freccia. Un omicidio! La punta, sempre in selce, è conficcata sulla spalla sinistra, tra il cuore e il polmone. Ha reciso un’arteria e causato una grave emorragia.
Il Museo Archeologico di Bolzano (dove Ötzi dimora) accoglie 300.000 visitatori l’anno, da ogni parte del mondo.
Ora… perché stiamo raccontando tutto ciò?
Perché alcuni segni neri, impressi sul corpo dell’uomo del Similaun, quasi fossero marchiati a fuoco, destarono da subito grande interesse e in breve tempo vennero identificati come veri e propri tatuaggi, dalla funzione rituale o terapeutica (si pensi alla medicina tradizionale cinese, per la quale, lungo il corpo umano, scorrono canali di energia, detti meridiani, che nell’agopuntura hanno un potere significativo per la cura di dolori acuti e disagi fisici).
Grazie ad avanzate tecniche investigative, sul corpo di Ötzi vengono rinvenuti 61 tatuaggi, suddivisi in 19 differenti gruppi. Due di questi gruppi sono piccole croci sul ginocchio destro e sul tallone sinistro, mentre gli altri 17 sono strutturati in linee parallele, da due a quattro, distribuite dappertutto (torace, polso, colonna vertebrale, gambe, malleolo).
La tecnica utilizzata per praticarli è meno certa. Un’incisione con una scheggia di selce nella quale è stato strofinato del nerofumo da carbone di legna? Una perforazione con un ago di osso intinto nel nerofumo?
Di certo, al di là della tecnica, i segni risultano posizionati esattamente lungo i suddetti meridiani e la loro disposizione in parallelo potrebbe essere dovuta proprio a una precisa sequenza terapeutica. È l’ipotesi più accreditata. È altresì probabile che gli interventi per alleviare il dolore avessero efficacia limitata e dovessero essere nel tempo ripetuti.
I segni neri di Ötzi, dunque, sono i tatuaggi più vecchi del mondo. Brad Pitt, nel 2007, si fece tatuare la sua sagoma stilizzata sull’avambraccio sinistro.
Nel settembre appena terminato ho incontrato 7 eredi di
Ötzi. 7 suoi discendenti che abitano la nostra città, Bergamo. Ho chiacchierato dei loro tatuaggi.
In Italia il 48% della popolazione adulta ne esibisce, sul proprio corpo. Sono una vera e propria “moda”. Eppure, pur essendo pratica diffusa, conservano spesso il potere di raccontare molto di chi li porta, per ciò che ogni storia possiede di unico, intimo, identitario.
Una certa storiografia faziosa li ha per lungo tempo confinati in epoche preistoriche: roba da selvatici e primitivi. Li ha poi fatti ricomparire (frutto di viaggi) da sub-civiltà extraeuropee. Ora si sa che una tale ricostruzione è pura ignoranza. E si sa pure che essi non sono espressione esclusiva del mondo criminale o alterazione profana di chi non rispetta l’originaria creatura divina, bensì segni voluti e indelebili del sé di chiunque. Senza distinzione di età, razza, ceto, religione, sesso.
Le nostre 7 storie sono qui a dimostrarlo.
La prima storia è quella Plissken. Lo incontro, lui e i suoi occhi miti, belli, nei locali della Fondazione Opera Bonomelli. Ci vive da 18 mesi, con un programma personalizzato che, nel suo caso, prevede 2 anni di permanenza. “Mi sembra…”. Fuori di qui lavora part time in un’impresa di pulizie, 20 ore la settimana. Ha superato il mese di prova. È ottimista, “anche se la mia storia dice che bisogna andar cauti”. Si sta impegnando molto. È fatica piuttosto pesante. Trasportano bidoni e sacchi dei condomini dal punto di raccolta a bordo strada. In qualsiasi condizione di tempo e a qualsiasi distanza. “Ieri mi sono spaccato”.
Altre 20 ore le svolge proprio in Bonomelli, da10 mesi, in portineria. Se la ditta esterna lo assumesse smetterebbe subito, per lasciare ad altri la possibilità di un impiego. È del 1967. 3 marzo. Pesci.
Il primo tatuaggio non è altro che la sua data di nascita, un po’ stinta, e insieme a essa il simbolo zodiacale. Lo volle da minorenne, nei primi anni ottanta, scuole medie, “per fare lo sborone”. Sulla caviglia, non troppo visibile. Se lo fece da solo, senza macchinetta, con 3 aghi, la china… un po’ doloroso, imitando un ragazzo tedesco che aveva osservato al mare.
I suoi accettarono senza protestare. Sono sempre stati tolleranti e buoni.
La mamma ancora c’è. Ogni tanto torna al paese e la va a trovare.
Agli oroscopi non crede, ma alle indicazioni caratteriali dei segni in parte sì. Di sé, dei pesci, riconosce l’affettuosità, l’essere tranquillo. E al tempo stesso, l’emotività. A vedere i suoi occhi miti e ascoltare la sua voce accogliente si direbbe abbia ragione, rispetto alla quiete. “Io non mi sono mai voluto troppo bene. Ho voluto più bene agli altri. Fuori. Verso l’esterno. Cerco di mettere le persone a proprio agio”.
Il secondo tatuaggio sta sulla spalla sinistra. Impresso pure questo da minorenne, a 17 anni. Pure questo da sé. Si tratta del cobra di “Fuga da New York”, film diretto da John Carpenter nel 1981. Jena Plissken, il protagonista, lo esibiva vistoso sul ventre.
Con acribia il nostro Plissken riassume la trama della pellicola (l’ha vista 3 volte).
Una capacità peculiare di Jena è quella di essere in grado di cavarsela in qualsiasi situazione, anche se solo e con pochi mezzi a disposizione, unendo l’addestramento ricevuto nelle forze speciali e l’esperienza appresa nel mondo criminale: è un maestro di stealth, spionaggio, sabotaggio, infiltrazione, guerriglia urbana, tecniche di sopravvivenza e combattimento. È in grado di utilizzare qualsiasi arma, sia da fuoco che da taglio, ed è esperto nel combattimento corpo a corpo, con conoscenze di Karate, Taekwondo, Kdenpô e Ju jittsu brasiliano.
Insomma… un eroe. Sul dorso del cobra del nostro Plissken si leggono le lettere del suo vero nome. “Era un tatuaggio semplice, ma mi è uscito male”. Lo fece che già lavorava, perché, finite le medie, 3 giorni dopo l’esame, Plissken stava in cantiere insieme a suo padre, a imparare il mestiere (l’idraulico). Voleva la vespa, l’indipendenza economica. I suoi anche in quel caso non contestarono, sebbene fosse un peccato, visto che a scuola prometteva bene.
Sta sbiadendo ormai, 40 anni dopo.
Sulla spalla destra vedo il faccino di Micky Mouse e 2 nomi sotto vergati in arabo: Nicholas e Michelle, i nomi dei suoi figli.
Venne realizzato in carcere, la prima volta che ci finì, a 36 anni, nel 2003.
Della correttezza dei caratteri arabi (che ama e giudica armoniosi, gotici) si fida, perché il tatuatore era marocchino; “tranquillo, una brava persona”. Con lui e un altro detenuto condivideva la cella, che a Bergamo, all’epoca, significava 2 metri e mezzo per 3 metri, 3 persone, 3 letti, 3 armadietti, 3 sedie e un tavolo. 20 ore dentro, serrati, e 4 fuori, il mattino e la sera, a prendere aria. Dal 2013 ci sono invece “le celle aperte”. Si può circolare liberamente in sezione.
“Avevo sempre in testa i miei figli. Erano piccoli. Erano nati nel ‘96 e ‘97. Mi mancava il loro odore. Da poco mi ero separato, 8 anni dopo il matrimonio”.
In carcere i tatuaggi sono proibiti, occorre agire di nascosto. Aspettare che nessuno passi. Interrompersi… ricominciare. Se ti beccano finisci in isolamento. Anche gli aghi non sono permessi. Lui riuscì a procurarseli grazie alla madre, infilati nel colletto della maglietta. Tutte le settimane andava a trovarlo.
Il tatuaggio non è fatto in china, ma in nerofumo. Usò il bottone di un cuscino, facendolo bruciare e mischiando poi il materiale colato con un po’ di shampoo. Ci misero parecchio, ma il tempo non mancava.
Quando lo mostrò ai due bimbi ne furono felici. Nessuno dei due lo ha mai abbandonato. La figlia soprattutto, guai per il papà!!!
Anche il quarto e ultimo tatuaggio (del 2014), ben visibile sull’avambraccio, Plissken lo eseguì in carcere. Il tatuatore si faceva pagare in sigarette e serviva l’intera sezione. Usava un fac-simile di macchinetta, riciclando il motorino di un walkman e un cucchiaio che faceva da binario a un ago. In quell’occasione lui non dovette pagare però, perché al tatuatore avanzavano colori da altre incisioni, che seccandosi sarebbero andati sprecati.
Scelse un’amanita muscaria, noto fungo allucinogeno, umanizzato, con la faccia in un’espressione arrabbiata da fumetto, e due piccoli funghetti ai lati. Ancora una volta i suoi cuccioli. I secondini non poterono non notarlo, ma, come sempre, “se non fai casini e li rispetti ti permettono di fare quello che vuoi”.
Pare un disegno di Jacovitti.
Ecco, i tatuaggi sul corpo possente di Plissken sono questi.
In prigione, più di 10 anni, ci è finito per l’accumularsi di tanti piccoli furti; mai niente di violento. “Furtarelli da tossico”, a rintracciare il denaro e farsi. Siccome recidivo le pene si allungano.
Dal 2000, causa sostanze, eroina su tutte, s’è fatto Comunità, carcere e strada.
L’eroina è la madre degli ansiolitici, dicono. La gestione delle emozioni, quella caratteristica del suo essere pesci… forse con tutto questo c’entra qualcosa.
Dal giorno prima di entrare alla Bonomelli “ho smesso di usare”. Anche per l’età, che non regge più certi ritmi. Plissken è sempre stato un ingordo, un vorace. Ha più volte rischiato la pelle per overdose. Si drogava e lavorava indefesso nei cantieri. Aveva una ditta e dipendenti. Anche parecchi soldi, all’epoca.
“Per il momento ce l’ho fatta, seppure le voglie ci siano sempre”.
Come i tatuaggi: indelebili.
Lo saluto. Gli chiedo perché il suo linguaggio appaia quasi… forbito, e scopro che, com’è naturale per chi parla così, è un ottimo lettore. Da Topolino ai romanzi, da Paolo Coelho a George Orwell.
“Il mio primo libro fu ‘La fattoria degli animali’. Stupendo!!”.
(La Déesse de la) Volonté
È un momento molto bello nella vita di La Dèesse de la Volonté. Ci vediamo alla mensa della stazione, accanto al Drop in, ma lei è qui di passaggio. Dimora infatti alla Casa Accoglienza Il Mantello dall’aprile di quest’anno, e dopo “un percorso residenziale stupendo di 3 mesi” stanno per aprirsi per lei le porte dell’autonomia. Già lavora, occupandosi di pulizie alle palestre di Torre Boldone. Arriverà presto, spera, anche la casa, dopo anni di sofferenze e di strada. “Ce la sto facendo. Grazie alla mia volontà”. Dal giorno in cui è entrata al Mantello ha smesso con l’alcol e la droga. È pure ingrassata 15 chili, “ma chi se ne frega”.
Ha 49 anni, Volonté, e 5 tatuaggi.
Il primo di essi è… un sole e una luna abbracciati che disegnano un cerchio. Schiena/spalla sinistra. Lo fece a 22 anni a un moto-raduno, sebbene una moto non ce l’avesse. Completamente ubriaca. Era lì con il compagno di allora e con la madre, cui chiese il permesso. Per Volonté si tratta di un simbolo che rappresenta la libertà. Il suo essere libera, decisa ad arrivare, a qualunque costo. Quello che nell’esistenza, come detto, le sta finalmente accadendo. “Sono un’ariete. Ho una determinazione invincibile”.
Molto tempo dopo quell’incisione giovanile, altre 4 se ne sono aggiunte, tutte insieme, l’anno scorso, perché il suo uomo del momento tatuava.Avambraccio destro e sinistro, le due parti interne. Luisa e Rayan, il nome dei figli. Sotto di essi caratteri arabi. Immagino ne siano la traduzione. Luisa 15 anni, Rayan 11.
“Sono la mia vita. Non li vedo dal 2018”.
I ragazzi stanno infatti in Marocco. Vivono con la nonna, mamma dell’ex marito marocchino, da cui si sta separando. Fu proprio Volonté a portali laggiù. Tornò poi in Italia per accudire il padre invalido e ormai tanto ammalato. Non avrebbe mai accettato di rinchiuderlo in una casa di riposo. Dopo un anno, alla sua morte, avvenuta il giorno prima del compleanno della madre già deceduta (“le ha fatto un regalo di compleanno; è andato a ritrovarla lassù”), Volonté ritornò in Marocco e ci rimase tre anni. Nel 2018 scadono patente e passaporto. È costretta al rientro. In Italia i documenti non le vengono rinnovati. Finisce in strada. I figli non li rivede più. “A 18 anni li riporterò qui. Sicuro. Loro lo vogliono”.
Stanno bene, per fortuna. Sono sereni. La nonna è una persona in gamba.
Anche il quarto tatuaggio è fatto di lettere. Consunte. R e L, le iniziali dei genitori. Riccarda e Luigi. Sul corpo Volonté ha deciso di tratteggiare le persone più importanti della sua vita.
Sta sul petto e vorrebbe ritoccarlo, ma le piace anche così.
Il quinto tatuaggio è la lettera “D”. D come Davide, il nome del compagno tatuatore. Ma D anche come Dimitri, il fratello di Volonté. Ora che il connubio con Davide s’è frantumato, ha deciso di “riciclare” il tatuaggio e riferirlo a una persona cara davvero.
Per i 4 tatuaggi si fece pagare un prezzo di favore, 100€. Dopodiché la situazione precipitò. La picchiò selvaggiamente un giorno, “riducendomi uno schifo”. Intervenne l’ambulanza. Era il 5 marzo di quest’anno Vivevano insieme, drogandosi. È da quel giorno che le cose sono finalmente cambiate. Volonté decide di cambiare vita. Basta lui. Basta strada. Basta birra. Basta usare. Una vita normale.
Cinque, quindi, i tatuaggi attuali, ma non saranno i soli ad adornarla. Quando possibile ne farà un sesto, una giarrettiera con pugnale, “anche se qualcuno dice che sarebbe volgare”. Volonté ama le lame e i coltelli, che qualche volta in passato ha usato contro di sé.
L’ultimo infine, il settimo, perché sostiene debbano essere dispari, sarà il tatuaggio dell’Atalanta, di cui è tifosa accanita. Non la squadra o lo stemma, ma la figura mitologica della Dea. Una Dèesse. Ci andava allo stadio, un tempo.
Quando le chiedo, nel congedarmi, se ritiene d’aver commesso errori, essendo così forte la sua determinazione e la sua convinzione nel fare, mi risponde che sì, ne ha commessi, ma rifarebbe tutto quello che ha fatto, anche portare in Marocco i due bimbi, che ora sente quasi ogni giorno, e con i quali parla arabo e francese.
Il prossimo mese avverrà la separazione definitiva. Poi ci sarà il divorzio, e il ritorno alla libertà di cui sopra. La via è tracciata. Gli obiettivi ben definiti. Casa, lavoro, i ragazzi da far ritornare.
Quando era in strada le capitava di sognare i suoi genitori. Ora non più. “Non hanno bisogno di farsi vedere. Hanno capito che ho messo la testa a posto”.
Se l’incontro con Volonté, di cui abbiamo appena raccontato, è avvenuto in un momento felice, dove il riscatto assume forme concrete e delinea prospettive promettenti, di quello con Dandark non si può dire certo lo stesso. La voglia di parlare è poca. Il senso di fallimento… predominante. Un posto dove stare, da luglio non c’è. C’è piuttosto il timore cominci presto a far freddo; che i rifugi nei quali ripararsi non siano sufficienti a resistere e la coperta di lana (rubata) non basti. L’animo è nero, come lo sono le sue unghie dipinte. Come l’universo dark (musica, film, moto, oggetti, moda) di cui l’intera sua esistenza è convinta espressione. Eppure, nel nostro scambio fugace, seduti nel cortile del Galgario, la speranza è comparsa nitida fra le parole.
Dandark viene da Siracusa. A 3 anni la madre (che lo aveva affidato alla nonna) lo ha ripigliato e portato al nord (vicino a Milano, dove il padre scontava una pena). Entrambi non ci sono più.
Ha 50 anni, quasi. A 25 cominciò a tatuarsi.
La prima volta sul braccio destro. Un cuore a pirata, i cui colori vanno svanendo. Lo fece quando conobbe la moglie, con cui per 20 anni ha vissuto. Nel 2019 la storia è finita. Anche lei si tatuò, un cuoricino “normale”. Dalla loro unione è nata una figlia, che di anni ne ha 23, ora, e che non lo vuole vedere. Neppure Dandark vorrebbe, “in queste condizioni”.
Di tale cuore non nero, a sorpresa, c’è un ulteriore elemento spiazzante. All’interno di esso compariva “Claudia”, il nome di lei. Lo spazio occupato dal nome appare oggi completamente vuoto. Vi è la pura pelle del braccio. Da quando si sono separati, afferma Dandark, le lettere sono sparite. “Si è smaterializzato. Non so come”.
Non finì bene con Claudia. Una sera durante un litigio tirò fuori un coltello e la minacciò. Partì una denuncia, poi ritirata, ma il carcere lo fece lo stesso: 5 anni a Castiglione delle Stiviere.
Lungo la parete interna dell’avambraccio di sinistra, dall’incavo del gomito fino al polso, appena prima della mano, corre una scritta: Non può piovere per sempre… Il riferimento al film “The Crow” (“Il corvo”, film cult del 1994) è diretto. Lo ha visto 20 volte.
La frase nell’opera è pronunciata da Eric Draven, cantante rock, anima inquieta e tormentata, tornata dall’aldilà per vendicare la propria morte, nonché lo stupro e l’omicidio della fidanzata, e viene rivolta, citando una propria canzone, a Sarah, una ragazzina che gli chiede se sia un clown o un fantasma e che si lamenta della pioggia battente. È una frase detta con dolcezza malinconica. Con profetica saggezza.
“Ma nella mia vita, adesso, sta tempestando”.
Venerdì 13 settembre doveva sposare una nuova compagna (è un latin lover; ha avuto contemporaneamente 13 amanti), ma a marzo si sono mollati.
Dieci minuti prima della nostra chiacchierata ha pure dovuto buttare il suo “chiodo”, personalizzato con ossa scheletriche. L’umidità del magazzino in cui l’aveva lasciato lo ha rovinato per sempre. “600€… che paranoia”.
Lungo l’altro avambraccio, sulla parte esterna, la scritta è invece Dandark Custom, una specie di riassunto della cultura cui da sempre ha attinto e per la quale ha prodotto nel passato gioielli, vestiti, scarpe, customizzati appunto.
Un nome d’arte, in pratica, e un riferimento specifico all’amore per le Harley, che per lungo tempo ha posseduto. “Ho avuto anche una Red Rose e una honda shadow 600”.
Anche il quarto tatuaggio che mi mostra è un omaggio esplicito. Molto vasto, ricopre le spalle e parte della schiena. Sono le ali di un pipistrello. Su quella di sinistra si scorge un numero ben noto, 666, simbolo satanico per il Cristianesimo: l’Anticristo, La Bestia. Il riferimento è ovviamente all’album e alla canzone dei Litfiba (1990). “Io però di solito ascolto musica più crudele: Marilyn Manson o i Blutengel”.
Un quinto tatuaggio gli pittura il collo. Una semplice “D”, in carattere tipicamente gotico, come sempre il suo lettering. È l’iniziale del vero nome, che al pari di tutti gli altri narratori coinvolti non staremo ad enunciare.
Un ultimo tatuaggio, il sesto, ancora non c’è, ma vorrebbe che in futuro rivestisse la mano sinistra (la mano diabolica…), e che rappresentasse a mo’ di scheletro il cantante dei Tokio Hotel, gruppo pop-rock tedesco, con più di 10 milioni di copie vendute.
In agosto a Dandark hanno rubato cellulare e documenti. La depressione (che continua alla faccia dei farmaci) gli impedisce di agire e affrontare le varie procedure per poterli riottenere. Così come non gli consente di rivendicare gli arretrati dell’assegno di inclusione, di cui avrebbe diritto. Con i 2500€ che gli spettano anche il sesto tatuaggio diventerebbe sostenibile.
Eppure… eppure l’idea di insistere con Sert e assistente sociale per un nuovo progetto studiato per lui, customizzato, è ben presente. La esprime. Lo ripete più volte.
E così quella di smettere con l’alcol e la droga, anche se ieri ha pippato e ne prova vergogna.
L’idea di entrare in una Comunità e ricominciare.
“Sto soffrendo troppo. Non voglio più saperne di vivere così”.
Moko è nata in Bolivia, a Cochabamba, 42 anni fa. A 24 mesi venne adottata da una famiglia bergamasca. Non è mai tornata nella sua terra natale, anche se un giorno le piacerebbe farlo, né mai ha voluto sapere alcunché dei genitori biologici. “Avranno avuto i loro motivi. Anch’io adesso ho una storia simile”. Cioè: anche Moko ha 2 figlie affidate alla zia dell’ex marito (ora in carcere, ma la zia è una persona per bene), dal quale si sta separando. Una relazione finita male, fra insulti e botte, talvolta davanti alle bambine.
“Le vedo poco ultimamente, perché senza casa. Occorre trovare una situazione più tranquilla. Dobbiamo rimboccarci le maniche”.
Al momento, da una settimana, dorme alla Palazzolo. Noi invece ci incontriamo al Galgario, sopra lo stesso basamento in cemento della chiacchierata con Dandark. Ma non è sola, Moko, al dormitorio. È insieme a qualcuno. Ancora per 15 giorni. Aspettando una comunità e un nuovo progetto di inserimento lavorativo, anche se in due è tutto più complicato.
Il primo tatuaggio, sul petto, appena sotto il collo, è un’imprecisa farfallina/fatina, con delle stelle e una rosa attorno. Non ha un significato “speciale”. Lo commissionò 15 anni fa a un ragazzo indiano che aveva aperto un negozio e stava imparando. Per soddisfare il bisogno del ragazzo di praticare l’arte. Lui le chiese un soggetto facile. Quello proposto gli risultò piuttosto difficile. Avrebbe dovuto esserecolorato, in realtà, ma il giorno dell’intervento il dolore costrinse a fermarsi. Moko tornò la settimana successiva per terminarlo. Il negozio era chiuso. Una vicina le disse: “Non l’hai saputo? Si è suicidato”.
“Non l’ho mai ritoccato. È un ricordo… sebbene pesante”.
10 anni fa, sulla spalla destra, il secondo tatuaggio: ancora le stelle. Quattro. Come il primo, non nasce da una ragione “forte”, dice Moko. “Io non ho tanta creatività”. È che le piace la notte, le piacciono le stelle.
È che nella vita, da sempre, sia quando ha vissuto in una casa sia quando s’è trovata costretta alla strada, le piaceva andarsene in giro da sola. Per quanto pericoloso sia. 2 o 3 birre, a meditare. La sua dipendenza dall’alcol non è estrema. Conserva una certa moderazione perché ha sempre dovuto guardarsi alle spalle da sola, ed è necessario mantenersi lucidi per poterlo fare.
Le stelle sono sempre state una compagnia rassicurante e fedele.
accade ai Maori, popolazione polinesiana per la quale i tatuaggi sono segno di grande valore e d’appartenenza tribale, e che essi chiamano “Moko”. “Ngunga”, fra i Moko, quelli che stanno attorno alle sopracciglia. Sulla fronte della nostra Moko è impresso un nome, Mariana, la compagna, della quale è profondamente innamorata e con la quale da 3 anni e mezzo convive.
Lo scelse poco più di 1 anno fa, e fu assai criticato. Le dicevano: perché proprio sulla faccia? Perché non il nome delle tue figlie? Se litigate e vi separate che ne farai? Sarà visibile per sempre; ti dovrai mettere il Burqa…
Moko non si è fatta turbare. L’ha fortemente voluto e non s’è mai pentita. Non importa che Mariana non l’abbia imitata. Si conobbero 10 anni fa. Poi per 5 Mariana tornò in Bolivia. Fu allora che Moko sposò il marito ed ebbe due figlie. “Chissà, se non fosse partita magari non mi sarei nemmeno messa con lui, che proprio lei mi aveva fatto conoscere.”
Oltre ai tre tatuaggi di ora, Moko ne vorrebbe un paio sui polsi, per le due figlie: Catherine (dal greco “kataòs”, “pura”) e Sharon. Con loro Mariana ha un buon rapporto, da zia. Tutti insieme hanno vissuto per qualche tempo in una casa, dopo i pestaggi del marito e 8 mesi di Comunità, dalla quale Moko decise di andarsene proprio per riunirsi con lei.
Alzandoci dal basamento, prima del congedo, le chiedo dell’ematoma violaceo che le colora il volto sotto l’occhio destro, lo stesso sopra il quale sta il “moko-ngunga” (anche il livido lo sembra).
Fino a pochi giorni fa era gonfio e dolente.
Viene “da una persona trans” che due settimane addietro le ha aggredite a pugni, calci e sberle, lei e Mariana, “mentre venivamo qui al Galgario, sul bus”. Polizia, ambulanza, denuncia, ma per il momento nessun atto concreto che l’abbia bloccata. “È qui ancora che si aggira nei nostri stessi posti”.
Nel gruppo di seguaci/eredi di Ötzi fa eccezione Benu. Lui tatuaggi ancora non ne ha su di sé. Neppure uno. Eppure, la sua presenza è coerente rispetto alle testimonianze raccolte sin qui, perché i tatuaggi, in nome di una determinazione precisa e definitiva, appariranno presto per raccontare la storia della sua vita difficile. Il tragitto impervio che lo ha condotto sin qui. E soprattutto, per sancire la sua capacità di aver resistito ed esserne “venuto fuori”. È alla Bonomelli da 1 anno e mezzo, dopo 1 anno e mezzo di strada (sino a luglio 2023), e un periodo al Galgario. Tra 6 mesi uscirà. Da 4 lavora in un laboratorio di panetteria. È fiducioso lo assumeranno. Una volta assunto… una casa. Il precedente lavoro è stato una ditta che produceva shampoo e tinte per capelli.
29 anni, un volto da ragazzo tranquillo.
Il primo dei 4 tatuaggi che desidera (non appena avrà i soldi per farli e avrà superato la paura del dolore) è quello di un’Araba Fenice. Furono gli Egizi i primi a parlarne, chiamandola “Benu” (o “Bennu”); anticipando la mitologia greca. Che risorgesse dalle acque (come per gli abitanti delle terre attorno al Nilo) o dalle ceneri (come si affermò poi nel corso dei secoli), la Fenice è simbolo paradigmantico di rinascita e resilienza. “Io sono come la Fenice. Sono caduto tante volte, ma ho trovato la forza di rialzarmi e andare avanti”.
Lo imprimerà sulla schiena o sul collo. Dipende. Sul collo si vede di più e si avvicina alla speranza di Benu: quella che questo suo segno possa essere significativo per altri che stanno nel fuoco, come è stato per lui.
Dai 4 ai 21 anni venne affidato a una famiglia. A genitori diversi dai due che lo avevano messo al mondo. Entrambi malati di AIDS (che il padre, ignaro, aveva contratto da una relazione precedente, e che in modo altrettanto inconsapevole trasmise alla moglie). Entrambi tossicodipendenti (ma il padre usava meno di lei). La madre dedita alla prostituzione. Benu ultimo figlio di 6, avuti da uomini diversi. L’unico del suo adorato padre.
Il secondo tatuaggio infatti, sulla spalla sinistra, sarà il volto del babbo (una riproduzione realistica, ipotizza) con un angioletto e una frase che ancora non ha scritto. “Ci sto pensando. Sarà una frase mia”. Neppure Benu capiva perché, sin da piccolo, fosse tanto più legato al papà che non alla mamma. Glielo spiegò proprio lui, un giorno. Gli disse che durante un litigio furibondo lei lo aveva gettato dal terrazzo del secondo piano, e che lui, appena uscito di casa per allontanarsi, lo salvò dalla morte afferrandolo al volo.
Dopo quell’episodio il proprietario li cacciò. Per un certo periodo vissero in strada, lui e il papà. “Dormivamo sui treni. Mi raccontava favole. Faceva gli indovinelli sui modelli delle macchine, per aiutarmi a passare il tempo. A volte non mangiava per dare il mangiare a me”.
Anche il terzo tatuaggio in programma rappresenterà la sofferenza provata. Sarà un ramo, con parecchie spine e un fiore all’estremità, una rosa nera, con lui, la sua silhouette, che risale il ramo in direzione della rosa. Lo vuole sull’avambraccio sinistro, perché è mancino. Perché è il braccio che usa di più, pur essendo parzialmente ambidestro. Perché la sinistra, come per la faccia del padre, è la parte del corpo destinata alle cose belle. La sua morte, conseguenza dell’AIDS, fu una sciagura tremenda.
Fu, fra altre cose, la strada, in stazione, dopo aver perso il lavoro e dopo una convivenza poco felice con una ragazza, strascicata senza sentimenti. In strada, a dir il vero, non andò così male. Ci trovò persone con le quali legare. “Pur non avendo niente ci si aiuta lo stesso. Conta tanto il carattere”.
Il consumo di canne e di vino (“problemi di ansia”) non lo ha mai costretto a una vera e propria dipendenza, e la capacità di gestirsi, insieme all’esempio tragico dei genitori, lo ha aiutato a non degenerare. Da 8 mesi ha smesso ogni sostanza. Senza troppa fatica.
Della strada, soltanto un brutto episodio rammenta, accaduto poco prima di arrivare in Bonomelli. 8 stranieri che lo circondarono. Lui su una panchina. Pugni. Malconcio. Rubati portafoglio e telefono. Non li aveva mai visti. Una denuncia contro ignoti. Nessun risultato.
C’è un ultimo tatuaggio nelle intenzioni di Benu. Da disegnare a destra, non a sinistra, in basso, sulla zona lombare. È quello del volto della madre. Sempre realistico. La frase che lo accompagnerà in questo caso è già quasi definita. “Spero che un giorno riuscirò a perdonarti”. Quando morì, prima del padre (con il quale si era riavvicinata negli ultimi tempi, e che andò profondamente in crisi per la sua morte), Benu non provò il dolore e la tristezza di un figlio. “È brutto dirlo”. Ma… una lacrima comunque gli rigò il volto al funerale. “È una cosa che mi ha fatto riflettere tanto”.
Se va al cimitero va soltanto a salutare papà. Quando lui parlava di lei, dopo la morte, gli ripeteva: “Nella vita tutti sbagliamo. Tutti siamo imperfetti. Tua madre aveva vuoti che non riusciva a colmare. Ciò che ti ha fatto è ingiustificabile, ma per amore io l’ho perdonata. Tu… dipenderà dal tempo. Se riuscirai ad accettarlo”.
Sarà forse allora che il quarto tatuaggio arriverà.
Prima di separarci Benu mi rivela di avere una certificazione: l’ADHD. Ce l’aveva già ai tempi della scuola (con insegnante di sostegno) e un test recente l’ha riconfermata agli stessi livelli. Disturbo dell’attenzione e iperattività. Non si direbbe, gli dico. Sembrerebbe piuttosto un’anima sorprendentemente pacata, dopo tutto il passato. “Ho problemi di astrazione. A gestire troppe informazioni. Nella concretezza le cose van bene”.
Della famiglia affidataria, infine, poche parole. Poco affetto. Una certa lontananza. Riservatezza. Mai chiamati “mamma” e tantomeno “papà”. Nessun tatuaggio in previsione.
Delfìn migrò dall’Argentina a 5 anni. Ha entrambe le cittadinanze. La nonna italiana. Vennero qui per cercare fortuna, visto che in sud America negli anni settanta si faceva la fame. Fortuna che per molti anni in effetti gli arrise. Parecchi soldi. Belle macchine. Lavoro: montatore meccanico, idraulico, camionista È negli ultimi 3 che la vita s’è fatta grama. Occupazioni saltuarie; ingaggi a tempo limitato. L’ultimo impiego due mesi fa.
Delfìn ora sta in strada, anche se la madre gli permette di andare ogni tanto a farsi una doccia da lei.
Il primo dei 3 tatuaggi, un cuore e due iniziali sulla spalla destra, lo fece via militare. In un bagno, ubriaco, con 2 che lo tenevano fermo e uno che lo tatuava. Necessario perché ha una pessima reazione al dolore. Soglia di tolleranza zero. Anche un prelievo lo scatena e rende aggressivo. “Ai tempi del Covid dovevano accompagnarmi”. Il cuore e le due iniziali (L e D) celebrano il grande amore di Delfìn per la ragazza di allora, che durò 7 anni. Al sesto mese di naia lei lo tradì, stufa di restare da sola. “Ero scapestrato. A volte mi punivano e non mi concedevano di tornare in licenza”. Si erano conosciuti andando a prendere a scuola i fratelli minori. Poi, un giorno, in moto, s’accorge d’essere seguito. Da un’altra moto. Si fermano. Il conducente gli dice che la ragazza che viaggia seduta dietro di lui, Letizia, vuole parlargli. Delfìn in risposta propone a lei di cambiare posto e di salire sulla sua, di moto, e proseguire. È così, romanticamente, che tutto cominciò. Storia vera, la prima, non come le altre 1000 che vennero dopo (“non ho vergogna di dirlo”).
Alcuni amici hanno modificato tatuaggi non più… attuali. Delfìn no, l’ha fatto e se lo tiene. Sono tuttora amici. Letizia ha avuto figli con un altro uomo e ha conservato pure lei il tatuaggio, sulla spalla sinistra, colorato.
Il secondo tattoo, che sul braccio fa mostra di sé, realizzato lo stesso giorno del primo e nelle stesse condizioni d’opera, è un piccolo delfino. “Delfìn”, come si dice in spagnolo. Di nuovo un omaggio a quell’impareggiabile amore giovanile.
“Lei mi diceva che quando facevamo l’amore io mi muovevo come un delfino che nuota”. Anche Letizia ce l’ha tatuato, ma il delfino era lui. Nella scarificazione originaria c’erano pure il mare e il sole, ma entrambi nel tempo si sdefinirono fino a cancellarsi del tutto. Il tatuatore (ex camionista) era alle prime armi e aveva usato l’inchiostro di una semplice penna. “L’intero scaglione del ‘96 s’è fatto tatuare da lui. Anche i tenenti e i sottotenenti si sono prestati da cavia”.
Il militare fu un tempo di gozzoviglie. Stavano a Mezzocorona, terra del Teroldego. Un grande amico, scomparso schiantandosi in moto (“pace all’anima sua”) possedeva vigneti accanto alla caserma. Appena possibile scappavano, ed erano ciuche infinite.
Per il terzo e ultimo tatuaggio, che occupa l’intera superficie del polpaccio sinistro, dovettero legarlo ad un letto. Un’altra donna, Lucrezia. “Super bomba. Bellissima. Con 2 meloni così”. Eseguito da un artista alle prime armi, all’epoca, e che ora invece ha un’attività rinomata.
Gli fece infezione impolverandolo nel salire e scendere dal camion. Fu necessario usare dosi massicce di calendula. Nel tatuaggio, oltre alla figura della donna, compare un’anfora, che la donna impugna fra le mani, e disegnata sopra l’anfora la sagoma dell’Argentina, al contrario però, sbagliata, con la punta meridionale che punta a sinistra e non verso destra. “Mi tocca guardarlo allo specchio”.
In Argentina è tornato qualche volta, molti anni fa.
Prima di uscire dalla mensa della stazione, sistemandosi i pantaloni che ha sollevato per scoprire il tatuaggio, mi dice che la gamba non sta messa bene. Perone, tibia, caviglia crociato… tutto rotto. Una lastra di 1000 kg (1000 come le donne) gli cadde addosso in cantiere. Delfìn riuscì a schivarla e salvarsi, ma non abbastanza.
“La priorità è il lavoro. L’urgenza. Non voglio più stare qui. Così. È indispensabile non atrofizzarsi. Poter usare il cervello”.
53 anni. Avrei pensato meno. “La droga mantiene giovani”, ride. L’eroina, nello specifico. Dai 13. “Ora è sei mesi che sono pulito”. Via anche il metadone. Stando attento a non ricaderci.
4 mesi l’ultima comunità (ne ha fatte 8 in carriera, sempre per poco). L’han buttato fuori.
“Troppe regole”, per uno abituato a fare ciò che gli pare.
Ora è al Galgario, in attesa di un nuovo progetto e… una nuova Comunità (sigh sigh).
Si sta riappacificando con il fratello, che ha ereditato la gestione delle 3 officine del padre. Da una settimana va a lavorare da lui. È ancora presto però per una vera assunzione. “Giustamente non si fida. Le parole sono state tante e i fatti pochi. Un giorno in litigio arrivammo alle mani. Intervenne papà”.
Fino a 2 anni fa ha lavorato alla Sarco Toyota. Joker è un meccanico. Poi, tra ristrutturazioni interne, trasferimenti, chiusure e incarichi inadeguati ha deciso di farsi licenziare e godere dei due anni di disoccupazione. “Una cazzata colossale”. I due anni sono stati devastanti. Hanno definitivamente stravolto quella che fino ad allora era comunque una parvenza di vita “regolare”: soldi e casa, relazioni, lavoro. Usando e spacciando.
“Cambiare la testa a 53 anni… è dura”.
Il primo tatuaggio risale al 1988; 18 anni, Amsterdam. Epoca in cui erano roba di galeotti, marinai e mafia giapponese. Sull’avambraccio destro appare un jolly. Un joker. Indossa una specie di bandana a quadretti azzurri. C’erano anche quelli rossi, prima, ma si sono cancellati. Il tatuatore lo realizzò a mano libera. “È per avere sempre un asso nella manica”, spiega Joker. Il locale in cui le cose avvennero, “The Bulldog”, fa parte di una catena di Coffeeshop molto famosa della capitale olandese. Il primo aperto tra i canali del quartiere a luci rosse. Assai frequentato dai turisti italiani. Dal logo inconfondibile: il mastino con un collare borchiato.
Al ritorno la madre (testimone di Geova, “rompipalle”) restò sbalordita. La zona del corpo fu scelta per garantire discrezione: facendo il meccanico avrebbe rischiato di mostrarlo ed essere mal giudicato.
“Fino a 2 anni fa il mio joker ha funzionato”. Donne, soldi, macchine, viaggi. Aveva tutto.
“Ricostruirti dal niente… è dura”.
Il secondo tatuaggio, sulla spalla sinistra, è un sole tribale a 2 occhi, l’occhio del bene e l’occhio del male. “Perché sei tu a scegliere, ma ci sono entrambi, in ognuno”. Fu fatto per coprire un tatuaggio precedente (2 gabbiani che non gli significavano più niente), rudimentale, eseguito da un amico morto di overdose, con l’inchiostro della bic, tre aghi e un filo.
Il terzo tatuaggio è il più grande fra tutti quelli esposti in queste chiacchierate. Coinvolge la parte destra del petto e la spalla, lambisce la scapola e scende sul braccio fin quasi al gomito. Due carte cinesi (su petto e braccio), la carta del bene e la carta del male (di nuovo), componenti di un gioco che Joker aveva scoperto e apprezzato su una rivista. Fra esse (la spalla) un bambulè, segno carico di messaggi simbolici, inteso come la vibrazione divina primitiva da cui ha avuto origine l’universo manifesto. Anche il bambulè, solo lui, le carte no, venne dipinto dall’amico morto di overdose. Non lo ricoprirà mai. Sia il sole tribale che la composizione di carte cinesi risalgono (come il joker d’esordio) alla fine degli anni ‘80. A breve distanza l’uno dall’altro.
Il quarto e, per ora, ultimo tatuaggio, addobba la spalla destra. È il volto di una ragazza dai capelli lunghi, sciolti, gli occhi che guardano in giù, le ciglia folte. La sua ex. Federica. Papà di Bergamo e mamma dell’Etiopia. Mulatta. Conosciuta in una discoteca di Desenzano. Studentessa all’università di Verona (psicologia, forse). Quando il fine settimana andava a ballare si pigliava qualche pasticca di ecstasy o LSD. Per il resto pulita. Per i primi 4 anni della relazione rimase a Brescia. Poi venne a stare da Joker, che aveva una casa.
“Io non usavo tutti i giorni. Dall’84 al 2002 non prendevo metadone, perché stavo attento a non abusare; a non avere scoppiature. Studiavo quando farmi. Gli amici la mettevano in guardia… ma io l’amavo davvero. Quando venne da me, non dovendola più conquistare… ci ho dato dentro. Consumavo senza controllo”.
Federica rimase incinta. Lui lo voleva. Lei gli disse che non si fidava. Con lui così. Non se la sentiva. Joker pensa sia giusto, con il senno di poi. Che magari non sarebbe cambiato niente. Però… “chi lo sa, con un figlio forse sarei cambiato”. Si sentono ancora, dopo 15 anni. Sono rimasti amici. Ha due bambini.
Anche con un’altra Federica finì allo stesso modo, la gravidanza e l’aborto. Per gli stessi motivi.
Con lei andò alle Maldive e spese 44 milioni (di lire) in 2 settimane, restando a letto per gran parte del tempo, completamente “fatto”.
“Ho avuto tante donne, perché avevo tanti soldi e belle macchine”.
5 di queste storie sono state importanti.
C’è un altro tatuaggio necessario, cui Joker pensa, ed è quello della rinascita. Perché di rinascita si sente lancinante bisogno. Come per Benu, c’è nell’immaginario un’araba fenice, stilizzata, in mezzo a due velieri, uno a vele ammainate, nella calma piatta, immobile, e l’altro a vele spiegate, con il vento in poppa. “Prima di farlo devo mettere in pratica il cambiamento”.
Joker soffre di trombosi dovute all’uso di eroina, che, fino agli anni 2000, era tagliata in un certo modo, con sostanze accettabili (lattosio, mannite) e che invece nel tempo, in mano a spacciatori senza ritegno, è stata contaminata da “robe di merda: polvere di marmo, colla, cemento, con l’aggiunta del fentanyl, che dà più dipendenza”. L’eroina, fino agli anni 2000, è sempre stata in polvere. Adesso “sono sassi che per spaccarli ci vuole un martello. Te la danno a 20€ al grammo, quando a quei tempi ne costava 60. Se ne prendi 10/15 grammi la trovi anche a meno: 14/15€. Un tempo era pura al 9%. Ora, quando va bene, è al 2”.
Mi accomiato da Joker, che trovo sempre più somigliante al suo tatuaggio, quello del joker appunto. Ex sub da trenta metri. Ex addestratore di cani. Ex carcerato per spaccio, 3 anni. Ex produttore di vino, il Moscato di Scanzo. Ex praticante di snowboard. Ex cavaliere, con 3 cavalli e un soprannome, “caalina”, perché a 11 anni montava quello sardo, non tanto alto, regalato dal nonno, e dopo i compiti andava all’oratorio così, oppure a prendere il fratellino all’asilo. Ex onnipotente dalla cresta rialzata.
“Io la cresta non ce l’ho più. I fallimenti pesano”.
Vorrei dire grazie a tutti voi, discendenti di Ötzi,
dal profondo del cuore.
E a tutti coloro hanno voluto fossi io ad incontrarli.
Giuseppe Goisis
Un’esplorazione a cura di Giuseppe Goisis
Disegni di Tantemani
Un ringraziamento speciale va a Benu, Delfin, Joker, Pissken, Volonté, Dandark e Moko, protagonisti di questo viaggio, che con il loro coraggio e la loro autenticità hanno trasformato la vulnerabilità in forza e bellezza.